Diagnosi più Accurate. Più Spazio all’Empatia.

Gen 20, 2025

La domanda è inevitabile: questo articolo è stato scritto dall'intelligenza artificiale?

 

Se la curiosità ti divora, allora rimani con me fino alla fine, per scoprire se queste parole scivolano dalle dita di un essere umano o solo dai circuiti di una macchina che tenta di imitarlo. Alan Turing, brillante visionario, credeva che un giorno sarebbe stato impossibile per il giudice del suo test, distinguere l’uomo dalla macchina semplicemente ponendogli domande, e forse quel giorno è davvero arrivato.

Sono un medico, e anche se non ho mai indossato il camice per fare clinica, la mia vita è stata plasmata dagli ospedali. Da bambino, visitavo spesso il reparto Monteggia al Policlinico di Milano per andare a trovare mio padre medico. Lo ricordo bene, un luogo che al tempo era affascinante e un po’ spaventoso, con le sue stanze immense e semioscure, letti di metallo allineati in file ordinate, e la presenza delle suore. Non c’erano infermieri a quel tempo, solo loro, imponenti nelle loro vesti bianche, occhi severi, sorrisi a metà, e io, timido, aspettavo che mio padre si trasformasse in quel supereroe che ogni fanciullo vede nel proprio genitore. Metteva il camice come un mantello, pronto a entrare in azione contro il dolore, pronto a combattere non il crimine, ma la sofferenza.

Allora la burocrazia non occupava tanto spazio, e mio padre aveva tempo, tempo da dedicare ai pazienti, tempo che oggi appare un lusso raro. Mi faceva conoscere ogni paziente, si sedeva in fondo al letto e chiedeva come stessero. Spesso rispondeva qualcun altro nella stanza, e quel piccolo gioco rompeva il silenzio, e le donne del reparto ridevano. Sì, era un reparto femminile, un microcosmo di storie, di risate, di piccole e grandi confidenze che mio padre accoglieva. Le prendeva in giro dolcemente, le faceva ridere, e loro arrossivano, lusingate da quella premura.

Io, con occhi spalancati, osservavo quel mondo magico, pensando che un giorno, anch’io, avrei potuto essere un eroe come lui.

Non sono mai diventato quel supereroe, e forse è stato meglio così. Col tempo, molte cose sono cambiate. Non solo in me, ma anche nel modo in cui il mondo della medicina accoglie i suoi pazienti. Quei lunghi corridoi di marmo bianco del Monteggia, le statue che osservavano con sguardo austero, sono solo ricordi sbiaditi. Oggi, quello che un tempo era un luogo silenzioso e maestoso è diventato un edificio moderno, pieno di colori sgargianti, dove ogni angolo risponde con precisione ai regolamenti igienici. È efficiente, funzionale, perfettamente calibrato su ogni esigenza pratica, ma qualcosa potrebbe essere andata persa per sempre.

Anche la medicina è cambiata: è diventata più rapida, più efficace, e certamente più attenta ai costi, almeno in termini di tempo. Ma in questa rincorsa all’efficienza, nessuno si siede più in fondo a quel letto per ascoltare veramente il malato, per parlare con lui, forse persino per confessargli una storia personale, un segreto. Quell’intimità si è sgretolata, lasciando una mancanza profonda che i medici sentono e spesso non sanno esprimere.

Ricordo come ieri quei pazienti che affrontavano lunghi viaggi per portare a mio padre piccoli doni, che non erano solo un grazie per una cura ricevuta, ma per averli ascoltati, accolti, compresi. Era come se l’ascolto fosse la prima medicina, un balsamo per le anime prima ancora che per i corpi. Oggi tutto è più veloce, come se il tempo stesso fosse diventato un bene troppo prezioso per essere sprecato in una chiacchierata.

Ma il mondo è andato avanti, e forse è giusto così. La medicina moderna ha salvato vite, certo, ma ogni tanto mi chiedo se non abbia dimenticato come salvare anche lo spirito, quel legame intangibile che trasforma un medico in qualcosa di più di un semplice esecutore di diagnosi e terapie.

Oggi, anche il più umile dei gesti – una carezza, uno scambio di parole gentili – rischia di perdersi nella frenesia dell’amministrazione, nei moduli, nei clic, nelle ore di documentazione che rubano tempo prezioso al rapporto umano. Ma forse, in un paradosso del progresso, potrebbe essere proprio l’intelligenza artificiale a restituire quel tempo perduto.

Questa sta cambiando il volto della medicina, non solo attraverso il progresso nelle diagnosi – di cui è già stato scritto molto –, ma restituendo agli specialisti un bene ancor più prezioso: il tempo. Quel tempo che un tempo era dedicato a un sorriso accennato, a una mano poggiata su una spalla o a un racconto condiviso, e che oggi sembra spesso smarrito tra moduli e click su una tastiera.

Immagino un ambulatorio dove l’IA lavora silenziosamente dietro le quinte. La sua intelligenza è quella di uno scrivano invisibile, che annota fedelmente le parole del paziente e del medico durante una visita. Al termine, tutto è già sistemato: referti ordinati, prescrizioni pronte, e dettagli amministrativi gestiti senza sforzo. Un medico, finalmente libero dalla zavorra delle scartoffie, può guardare negli occhi il paziente e ascoltarlo davvero, senza l’urgenza di passare al prossimo.

Immagino una scrivania finalmente libera dal caos di pile di documenti, quei fogli che sembravano crescere come rampicanti, intralciando ogni tentativo di ordine. Grazie all’IA, bastano pochi istanti per digitalizzare e strutturare ogni informazione direttamente nella cartella clinica elettronica dei pazienti. E così, quel piano di lavoro, un tempo prigioniero della burocrazia, torna a respirare.
Quella scrivania, così spoglia e nuova, ritrova il suo spazio per oggetti più umani: una foto di famiglia, magari con risate rubate a un compleanno passato, o un vecchio posacenere fatto con il Das, pieno di impronte di dita di bambino. Esiste ancora il Das? Poco importa: è lì, a ricordare che il medico non è solo uno scriba di dati, ma una persona, che finalmente può respirare, ritrovare il tempo per essere presente, con i pazienti e con se stesso.

In alcune realtà, come Geisinger o Amazon’s One Medical, questa rivoluzione è già iniziata: l’ascolto e la cura riprendono il loro posto centrale. È un ritorno a quell’intimità terapeutica che una volta legava pazienti e medici, un mondo dove l’umanità ha di nuovo il tempo per esprimersi​

Non sono i soli, anche qui in Netpolaris, ci piace pensare che anche noi stiamo provando a cambiare una piccola parte del mondo, restituendo al professionista sanitario quel bene impalpabile che sembra sfuggire sempre più: il tempo. Tempo per guardare negli occhi il paziente, per ascoltare senza fretta, per essere di nuovo il dottore che ricordo da bambino, quando la medicina era fatta di parole e di gesti più che di schermi e tabelle.

Stiamo sperimentando applicazioni che promettono di rompere le catene della burocrazia. Come un sistema di riconoscimento vocale avanzato, capace di registrare, trascrivere e organizzare automaticamente le conversazioni tra medico e paziente, liberandolo dall’incombenza di tenere lo sguardo incollato a un monitor. Oppure una tecnologia che legge e digitalizza quella carta che i pazienti portano sempre con sé come i referti, per restituire scrivanie libere, pronte ad accogliere il calore di una foto o di un ricordo.

E non ci fermiamo qui: stiamo anche affinando uno strumento che permette al medico di dialogare con il nostro sistema come farebbe con un collega, usando il linguaggio naturale per trovare esattamente ciò che gli serve. Forse non salveremo il mondo, ma di sicuro aiuteremo chi lo fa, un paziente alla volta.

No, non sono diventato quell’eroe che i miei occhi di figlio vedevano in mio padre. Non ho mai indossato quel camice bianco dai mille poteri, capace di trasformare ogni gesto in cura, ogni parola in conforto. Ma forse non importa. Perché oggi, insieme ai ragazzi del team, stiamo facendo qualcosa di altrettanto speciale: stiamo permettendo ai medici di tornare a essere eroi.

Qui in Netpolaris, non indossiamo mantelli né camici, ma ci impegnamo a progettare strumenti innovativi per liberare gli specialisti dal peso della burocrazia, restituendo loro il tempo per ascoltare, comprendere, curare. In un certo senso, noi gli eroi non li siamo, li creiamo. E questo, forse, è il potere più grande di tutti.

E ora, arrivato al termine di queste righe, devo confessare una verità che forse deluderà alcuni di voi che hanno avuto la pazienza di leggere fino alla fine. Non sono un’intelligenza artificiale. Non sono un algoritmo sofisticato che ha dato forma a queste parole. Sono semplicemente un uomo. Quel bambino che un tempo correva tra i reparti di un vecchio ospedale dei primi del ’900, osservando con occhi sognanti il padre indossare il camice bianco come un mantello da supereroe, ero davvero io.

E, nonostante il tempo e le sue trasformazioni, quel bambino non ha mai smesso di fantasticare. Sogno ancora quegli eroi in corsia, che ascoltano più che parlare, che curano con il cuore prima che con le mani. Sogno un mondo dove la tecnologia non sostituisca, ma accompagni l’umanità, restituendo ai medici ciò che la burocrazia ha rubato: la possibilità di essere presenti, davvero. Forse, con un pizzico di magia tecnologica, qui in Netpolaris stiamo cercando di realizzare quel sogno. Ma in fondo, tutto parte da lì, da un bimbo che non ha mai smesso di credere negli eroi.

Andrea Trabucchi
Project Manager
Netpolaris

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